V&J #5 (Autunno 2012)

V&J #5 (Autunno 2012)


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Se il simbolo è la carta d’identità del cosiddetto homo sapiens, il sacro – di cui il simbolo è espressione – è il testo fondamentale caratterizzante l’homo religiosus.

Entrambi, “simbolo” e “sacro” rappresentano orizzonti fondamentali per la definizione dell’uomo come “cittadino”, sia esso credente, ateo o agnostico. Infatti, come precisa Julien Ries nel suo manuale di antropologia religiosa: «Una delle più antiche iscrizioni romane è stata trovata nel 1899 presso il Comitium, sul Lapis niger nel luogo detto tomba di Romolo. Sul tronco della base di un cippo rettangolare figura il termine sakros, derivato dal radicale sak-, che è all’origine di diverse formulazioni del sacro nell’area delle migrazioni indoeuropee. Dal radicale sak- e dal termine sakros provengono sacer e sanctus, così come il verbo sancire, che significa conferire validità, fare in modo che qualcosa divenga reale»1. C’è, dunque un nesso profondo, suscettibile di diverse interpretazioni, fra “sacro”, “simboli” e “diritti”, soprattutto costituzionali. L’esplicitazione dei significati universali di tale nesso richiede dunque uno sforzo ermeneutico considerevole che può portare a esiti condivisi solo nel dialogo e nel confronto aperto, rispettoso e privo di pregiudizi.

Proprio per questa ragione il quaderno n. 5 di Veritas et Jus, non è né una monografia, né tantomeno un manifesto programmatico o un editoriale unitario, bensì un vero e proprio “cantiere di lavori in corso”. In esso i lavori sono ben lungi dall’essere terminati e come tali sono difficilmente accessibili ai non addetti ai lavori. Costoro possono, tuttavia, sbirciarvi dentro con curiosità e qualche utile profitto. Scopriranno così che il lavoro dei giuristi e dei politici, per quanto intricato e complicato possa essere, è indubbiamente afferente alla loro vita sociale, al loro agire pubblico e privato. Lì, perché nella maggior parte dei paesi europei, se i margini di espressione pubblica del proprio credo sono molto ampi, ciò lo si deve al fatto che – come ha affermato autorevolmente Ernst-Wolfang Bückenförde – «la cultura predominante del cattolicesimo è la cultura dei diritti umani e della libertà religiosa ed è proprio questa cultura predominante che ha informato un ordine pubblico europeo disposto a riconoscere la libertà religiosa come un diritto umano fondato sulla dignità della persona consentendo, così, a tutte le confessioni di mantenere la propria fede e di manifestarla sia privatamente sia pubblicamente senza condizionamenti di natura sostanziale»2.

Accettare queste regole finalizzate alla realizzazione del bene comune della società civile, non significa appiattire la propria identità religiosa e culturale specifica, perché – come dimostrano le sentenze analizzate in questo quaderno di Veritas et Jus – lo Stato onde garantire efficacemente la tutela dei diritti fondamentali non può semplicemente sancire principi astratti, come la mentalità religiosa, ma deve curare – nel rispetto delle norme procedurali – ogni singolo caso concreto. Autori e lettori di questi contributi – come in un cantiere aperto – sono dunque invitati ad interagire ed a collaborare per costruire assieme il “bene comune” di tutti che, come già insegnava il grande filosofo laico Aristotele, non si realizza se il legislatore umano non fa lo sforzo di ricollegarlo costantemente al “bene totale” di ogni persona umana che, per sua natura, trascende ogni ordinamento giuridico positivo.